“Leggere” il Sistema Sanitario Nazionale alla luce del Covid-19: cosa ci ha insegnato l’emergenza Coronavirus?

Strategic Advisory

L’emergenza Coronavirus ha messo in evidenza luci ed ombre del Servizio Sanitario Nazionale: criticità e punti di forza che erano presenti ben prima dello scoppio della pandemia, ma che il Covid-19 ha messo prepotentemente in rilievo.

Nomisma, che da tempo si occupa anche di analisi e consulenze in ambito di economia sanitaria, ha avviato una riflessione per “leggere” il Sistema alla luce di quanto accaduto nella convinzione che la ricostruzione del puzzle sia il primo passo per immaginare nuove traiettorie organizzative e di sviluppo” (tratto dall’articolo di M.C. Perrelli, F. Capobianco, L. Scarola).

Ne abbiamo parlato con Maria Cristina Perrelli Branca, Project Manager di Nomisma ed esperta in economia sanitaria.

Come valuta l’operato del Sistema Sanitario Nazionale durante l’emergenza Coronavirus? Aspetti positivi?

A nostro avviso è presto per rispondere a questa domanda. La Fase 1 dell’emergenza si è appena conclusa e la Fase 2 sarà importante quanto la precedente: una valutazione, dunque, potrà essere fatta solo fra un po’ di tempo. 

Si può dire qualcosa, però, in merito alla reazione del sistema sanitario all’onda d’urto. Da questo punto di vista, secondo noi, si possono evidenziare due aspetti positivi. Il primo è la capacità che il Servizio Sanitario ha mostrato nel riorganizzarsi, in tempi relativamente brevi, sul fronte ospedaliero. Basti pensare che, come riportato dalla Protezione Civile, in poco più di un mese i posti di terapia intensiva sono stati incrementati del 79%, mentre quelli nei reparti di malattie infettive e pneumologia sono aumentati di oltre 4 volte. 

Anche sul fronte delle risorse umane c’è stata una grande mobilitazione. Sono state infatti reclutate oltre 20 mila unità di personale di prima linea, di cui circa 4.400 a tempo indeterminato e 6.800 a tempo determinato (teniamo in considerazione che, nell’ultimo decennio, abbiamo perso circa 38 mila unità di personale ospedaliero in seguito ai tagli ripetuti). Regioni e aziende sanitarie, inoltre, hanno rivisto interamente la loro organizzazione creando ospedali dedicati al Covid, trasferendo o ampliando alcuni reparti, realizzando percorsi dedicati e acquistando attrezzature. 

Il secondo punto a favore, in merito alla capacità del Sistema di reagire all’emergenza, è indubbiamente la forte dimostrazione di professionalità, dedizione e spirito di sacrificio da parte di medici, infermieri, tecnici e di tutti gli operatori che hanno lavorato in prima linea contro il virus.

Quali, invece, le principali carenze che si sono evidenziate?

A nostro avviso, una delle principali carenze riguarda il fatto che, in questi anni, nel Servizio Sanitario Nazionale non è stato raggiunto un pieno equilibrio tra assistenza ospedaliera e assistenza distrettuale, benché ci siano situazioni molto differenziate fra le Regioni da questo punto di vista. Tale deficit è stato messo prepotentemente in evidenza dall’emergenza Coronavirus.

Negli ultimi trent’anni, in Italia, sono state portate avanti politiche sanitarie mirate alla “deospedalizzazione” dei casi non acuti che, insieme alle manovre di razionalizzazione della spesa, hanno comportato chiusura dei presidi ospedalieri al di sotto di una certa dimensione, taglio dei posti letto, drastica riduzione delle unità di personale e così via. Parallelamente si è lavorato al rafforzamento del livello di assistenza distrettuale e allo sviluppo dei servizi territoriali (evoluzione dei distretti, investimenti all’organizzazione di cure e strutture intermedie fra ospedale e domicilio, nascita di molteplici nuove strutture polifunzionali – per esempio le Case della Salute – per la continuità assistenziale e il soddisfacimento dei bisogni socio-sanitari, ecc.).
Tuttavia, questo secondo percorso è stato tutt’altro che omogeneo fra i diversi territori: ciò ha fatto sì che, allo scoppio dell’emergenza,  il Paese, in media, si trovasse non sufficientemente attrezzato sia sul fronte ospedaliero, ormai depotenziato, sia su quello territoriale.

C’è una significativa diversità di modelli da Regione a Regione e questa differenza ha avuto ripercussioni sulle scelte strategiche di gestione dell’emergenza: le strategie messe in atto, infatti, sono dipese non soltanto dalle decisioni prese sulla contingenza, ma anche dai modelli di assistenza sanitaria che le singole regioni hanno sposato e sviluppato negli anni passati. Senza entrare nel merito di chi abbia agito più o meno bene – non è questo lo scopo del nostro commento – i dati allo stato attuale mostrano che, nelle Regioni dove era già strutturato un buon livello di assistenza territoriale ed erano presenti i presupposti per agire su prevenzione e domiciliarità, ci sono stati dei vantaggi in termini di indebolimento della pressione sugli ospedali. 


Cosa ci ha insegnato l’emergenza Covid-19? Quali gli spunti per una riorganizzazione futura?

In merito alla Fase 2, comunità scientifica e fronte politico sono concordi: sorveglianza epidemiologica, domiciliarità, piena integrazione ospedale-territorio e impiego di gruppi di professionisti integrati, costituiti da figure dell’assistenza territoriale e da figure dell’assistenza ospedaliera. Si sta lavorando, infatti, in questa direzione (ad esempio tramite l’avvio capillare delle Unità Speciali di continuità assistenziale – USCA – su tutto il territorio nazionale).

Per quanto riguarda il dopo emergenza, bisogna far sì che gli insegnamenti tratti siano messi in atto per un ulteriore potenziamento dell’assistenza territoriale. Questo anche rivedendo l’impostazione di alcuni servizi e riflettendo sull’opportunità o meno di continuare a portare avanti dei modelli probabilmente obsoleti, ormai, rispetto ai grandi cambiamenti epidemiologici e sociali che ci sono stati negli anni. Pensiamo, ad esempio, alle RSA di vecchia concezione. Senza entrare nel dibattito di tutto ciò che è successo durante l’emergenza – allo stato attuale non siamo nella condizione di poter esprimere un’opinione supportata da dati in merito a ciò che si è verificato nelle strutture protette su cui stanno indagando le autorità competenti – quel che è certo è che l’emergenza ha riacceso i riflettori su una riflessione già avviata, seppur timidamente, in passato: le RSA sono soluzioni adeguate a soddisfare i bisogni dei nostri anziani? 

Ripeto, il riferimento è al modello in sé, al di là dell’emergenza Covid.
La domanda che dovremmo porci è: in un mondo in cui non si parla d’altro che di invecchiamento attivo, ha senso continuare a investire risorse per la sostenibilità di quei modelli? Oppure sarebbe meglio puntare alla realizzazione di servizi che consentano la cura e l’assistenza degli anziani nei loro contesti di vita? In generale, quindi, è arrivato il momento di fare un’analisi lucida per capire cos’è ancora adatto a soddisfare le esigenze della popolazione e cosa non lo è più

Per raggiungere una maggiore consapevolezza in tal senso, è necessario fare il punto della situazione in maniera rigorosa, attraverso strumenti di valutazione e controllo capaci di rilevare successi e criticità dei servizi. Sicuramente non si tratta di un’impresa semplice, soprattutto alla luce degli indicatori quantitativi che fino ad oggi sono stati utilizzati per misurare l’adeguatezza dell’assistenza territoriale. Indicatori che riescono a dare una visione solo parziale dello stato dell’arte (prevalentemente riferito alla domanda e all’offerta dei servizi), che non tengono conto degli outcome, ovvero delle ricadute che le prestazioni hanno nel concreto sulla salute dei pazienti, né della capacità dei servizi di essere integrati.

Quanta strada c’è ancora da fare sul fronte dell’integrazione tra sanità e welfare?

Da questo punto di vista c’è ancora tanta strada da fare, anche se possiamo dire che il sentiero è già tracciato, dal momento che si tratta di tematiche di cui si parla da tanto tempo. Sicuramente, visto il quadro demografico, epidemiologico e sociale della nostra popolazione, non ha più senso ragionare di sanità e welfare in termini disgiunti ed è fondamentale accelerare il processo di integrazione fra i due fronti.

Il confine tra i bisogni sanitari e quelli sociali in diversi casi è molto labile e da troppo tempo il sistema sanitario di trova a supplire all’arretramento dello stato sociale, oggetto di tagli decennali nei trasferimenti agli Enti Locali. Non è appropriato né sostenibile, ad esempio, che l’ospedale si faccia carico del caso dell’anziano che viene ricoverato per scompensi conseguenti ad un’influenza stagionale e che, superato l’evento acuto, non possa essere rimandato subito a casa dall’ospedale, perché privo di una rete di supporto familiare o sociale che possa coadiuvare l’assistenza del medico di medicina generale.

Per salvaguardare le persone fragili e quelle vulnerabili, serve un sistema di servizi di comunità diffuso, in cui istituzioni (ASL e Comuni), organizzazioni no profit e famiglie lavorino gomito a gomito, in modo parallelo e coordinato. Tutto ciò porterebbe opportunità anche in termini di sostenibilità economica, perché l’integrazione socio-sanitaria, così come concepita, implica non solo l’integrazione di operatori, professionalità e servizi, ma anche di risorse economiche. Un’esperienza in tal senso, sperimentata in diverse regioni e tornata alla ribalta negli ultimi giorni, è il “budget di salute”, un progetto innovativo basato sull’integrazione di risorse economiche, umane e professionali, mirato allo sviluppo del welfare di comunità. Un input, dunque, potrebbe essere quello di dare seguito a queste esperienze e far sì che lo strumento trovi applicazione in maniera capillare su tutto il territorio nazionale.

Quale futuro intravede in Italia per la telemedicina?

L’esperienza coronavirus ci ha dimostrato che se fossimo stati più pronti sul fronte della digitalizzazione dei servizi sanitari, avremmo scongiurato molte situazioni critiche che si sono presentate. Nello specifico, per quanto riguarda la telemedicina, il Ministero della Salute ha emanato già nel 2010 delle linee guida di indirizzo nazionali, in cui si definiscono ruoli, compiti e ambiti di applicazione. In passato, inoltre, ci sono state molteplici iniziative di telemedicina a livello regionale e locale; spesso, però, hanno rappresentato sperimentazioni, prototipi, progetti, caratterizzati da casistica e durata temporale limitata.

Tornando alla situazione attuale, il 13 aprile l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un documento destinato agli operatori e ai manager sanitari coinvolti nell’emergenza Covid-19, con l’obiettivo di fornire, a chi sta organizzando servizi in telemedicina, un modello di riferimento unico, che ne indirizzi la realizzazione in questo particolare periodo.

In premessa, l’Istituto Superiore di Sanità specifica che il lavoro è pensato per la situazione attuale, relativa alla diffusione del coronavirus; di conseguenza, non viene studiata la possibilità di estendere i servizi di telemedicina attivati durante l’emergenza oltre la durata dell’emergenza stessa, e rimanda ad ulteriori approfondimenti lo studio di metodologie e soluzioni che siano coerenti fra loro nel contesto nazionale, ma anche adattabili alle realtà locali.

A nostro avviso, superato questo periodo critico di implementazione di sistemi ad hoc, le Regioni continueranno a lavorare molto sulla telemedicina. Anche su questo, però, dobbiamo stare attenti alle visioni miopi, perché il punto non è solo la diffusione dei servizi di telemedicina, ma la creazione delle condizioni che permettono lo sviluppo e l’applicazione di tali servizi. Come già riportato nelle linee guida nazionali, quindi, bisogna creare fiducia nella telemedicina e favorirne l’accettazione da parte dei professionisti sanitari e dei pazienti. In secondo luogo, è necessario formare i medici e gli operatori sanitari, per far capire in che modo la telemedicina si inserisce a supporto dell’esercizio della professione e far sì che riescano a padroneggiare gli strumenti tecnologici previsti. 

Non meno importante è “connettere” gli utenti sotto un duplice punto di vista. Da una parte, è essenziale che tutto il territorio nazionale, anche le zone più disagiate, siano coperte da adeguate infrastrutture; dall’altra è indispensabile educare i pazienti, spesso anziani, e le famiglie a queste nuove modalità di interfaccia. Non si tratta solo di insegnar loro a usarle a livello tecnologico, ma di rassicurarli sul fatto che ciò non sostituisce il rapporto con il medico e che rappresenta solo uno strumento aggiuntivo.

In generale, come pensa che l’emergenza Covid-19 possa influire sullo sviluppo della sanità italiana?

Più che un’opinione è una speranza. Auspichiamo che l’emergenza dia seguito alle tendenze e alle strategie sanitarie che il Paese aveva già intrapreso su alcuni fronti (il rafforzamento del territorio) e sperimentato su altri, (l’integrazione socio-sanitaria e la telemedicina), dando un’accelerata ai processi e alle evoluzioni organizzative. Il Coronavirus ci costringe a finalizzare alcuni percorsi e a dirigerci verso gli obiettivi a ritmi molto più sostenuti rispetto a quelli del passato

È probabile che ci sarà anche una revisione di quella che è diventata l’offerta ospedaliera dopo la razionalizzazione degli ultimi decenni: fattori come il numero ottimale di posti letto o il numero di medici per paziente sono aspetti che verranno riletti alla luce di quanto accaduto, avendo presente che ciò che è stato considerato sufficiente in momenti di pace, non lo è stato in tempo di guerra.

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