Internazionalizzazione delle imprese alimentari italiane, un’opportunità che diventa necessità

Market Intelligence

Il tema dell’internazionalizzazione delle imprese agroalimentari italiane tiene banco nel dibattito pubblico ed economico da molti anni. I vari governi che si sono succeduti in Italia hanno spesso indicato, nei rispettivi programmi, obiettivi di crescita dell’export a cui venivano affiancati strumenti e sostegni economici finalizzati a conquistare quote di mercato nei diversi paesi mondiali. Una conquista che, tra le altre cose, avrebbe dovuto “rimpiazzare” quelle vendite di prodotti imitativi del Made in Italy – il cosiddetto italian sounding – che a detta di molti sottrae spazi al nostro export di “vero” food&beverage italiano (per quanto questi prodotti “fake” vengano venduti a prezzi medi di molto inferiori e chi li acquista non è detto che sia disposto a spendere di più per quelli originali).

In effetti, nel corso degli anni, l’export agroalimentare dall’Italia è cresciuto in maniera significativa. A fine 2022, le vendite oltre frontiera di prodotti agroalimentari hanno raggiunto i 58,8 miliardi di euro, contro i 31,9 miliardi di dieci anni prima. In termini dinamici, si tratta di un aumento dell’ 85%, una variazione superiore a quella fatta registrate dall’export del settore manifatturiero italiano considerato nel suo complesso (+59%).

Il risvolto dolente collegato a tale sviluppo è la propensione all’export delle imprese, misurata come incidenza del fatturato estero rispetto a quello totale. Sulla base delle analisi condotte da Nomisma sul settore, per il comparto del food&beverage tale incidenza è ancora inferiore al 30%, contro una media del settore manifatturiero superiore al 48%. Se poi si guarda con occhio più attento ai diversi comparti, si scopre che la propensione all’export delle imprese alimentari è quella tra le più basse (sotto tale percentuale figura solo il comparto del legno e carta).

Quali sono i motivi alla base di tale ridotta propensione? 

“Tanto per cominciare, va detto che il settore soffre, al pari di molti altri, di un nanismo e una polverizzazione del tessuto imprenditoriale che ovviamente impatta sulla capacità esportativa – illustra Denis Pantini, Responsabile settore Agroalimentare di Nomisma -. In effetti, delle 54 mila aziende alimentari presenti in Italia, solamente il 15% vende al di fuori dei confini nazionali. Una capacità che, come è facile intuire, aumenta con il progredire delle dimensioni aziendali. E qui sta il vulnus. L’86% delle imprese ha meno di 10 addetti ed è responsabile di appena il 10% del fatturato dell’intero comparto. Al contrario, le aziende grandi con oltre 250 addetti sono appena lo 0,2% dell’intero aggregato ma producono il 34% del fatturato complessivo”.

Questa polarizzazione incide indubbiamente anche sull’export e spiega le differenze esistenti con altri competitor come la Germania, ad esempio, che esprime una propensione all’export superiore al 40% in virtù di imprese più strutturate (le aziende con oltre 250 addetti sono oltre 600, contro le poco più di 100 presenti in Italia) pur non vantando, in giro per il mondo, una notorietà e reputazione del proprio food al pari di quello italiano.

“In altre parole, siamo di fronte ad un paradosso: abbiamo potenzialità di crescita nel mondo che ad oggi non siamo in grado di sfruttare appieno per via di un gap strutturale che connota il tessuto delle imprese agroalimentari e che se oggi questa possibilità può essere vista come un’opportunità mancata, in un futuro non troppo lontano rischia di diventare una necessità” – aggiunge Pantini. 

Le ragioni di questo “ribaltamento” delle condizioni sono diverse, ma una spicca su tutte e cioè il declino demografico che interessa il nostro Paese. Molte delle piccole e medie aziende alimentari che oggi sono attive in Italia producono esclusivamente per il mercato nazionale. D’altronde, tra consumi domestici e fuori-casa, con quasi 270 miliardi di euro, l’Italia rappresenta dopo Germania e Francia, il terzo mercato più importante in Europa per valore della spesa di prodotti agroalimentari. Purtroppo, però, tra qualche decennio lo scenario di mercato potrebbe essere molto diverso.

Da qui al 2050, infatti, la popolazione residente in Italia è stimata scendere da 59,2 milioni di abitanti a 54,2 milioni. La differenza, 5 milioni di persone, è equiparabile alla popolazione delle tre principali città italiane messa assieme, vale a dire Roma, Milano e Napoli. 

Non solo. Oltre al calo, va messo in conto un progressivo invecchiamento demografico. In altre parole, saremo di meno e più vecchi. Se oggi la popolazione italiana con meno di 65 anni rappresenta il 76,5% del totale, nel 2050 diventerà il 65,1%. Quella over 65 passerà quindi dal 23,5% al 34,9%, con gli ultra ottantacinquenni pari al 7,5% degli abitanti.

E’ facile immaginare gli impatti che questa rivoluzione demografica porterà sui consumi alimentari, sia dal punto di vista quantitativo (una popolazione più anziana consuma meno) che qualitativo (per ragioni collegate alle diete di persone meno giovani, alcuni prodotti come il vino, la carne e i dolci rischiano contrazioni nelle vendite più significative di altri). 

D’altronde, questi cambiamenti sono già in corso nel nostro Paese da diversi anni. Basti pensare a quanto accaduto al vino. Vent’anni fa, in Italia, si consumavano quasi 31 milioni di ettolitri di vino, oggi appena 23 milioni. Sono cambiate modalità e frequenza di consumo, così come il profilo degli stessi consumatori. I cosiddetti “frequent user”, quelli cioè che consumano vino più volte a settimana sono in continuo calo. Tra questi, quelli che bevono vino quotidianamente sono sempre più rari e maggiormente identificabili nei cosiddetti “baby boomers” che, per ragioni fisiologiche, tenderanno a ridursi ancora di più negli anni e non saranno sostituiti dalle generazioni precedenti dato che le abitudini di consumo sono radicalmente cambiate: oggi il consumo di vino è associato più a situazioni occasionali e conviviali piuttosto che ad accompagnamento dei pasti quotidiani.

“Sulla base delle evidenze rilevate, lo scenario evolutivo per le imprese alimentari italiane identifica quindi l’internazionalizzazione come una scelta obbligata per garantire una continuità futura sia alle imprese stesse che alla filiera agroalimentare italiana nel suo complesso, essendo questa fortemente integrata tra produzione agricola e industriale. ” – conclude Pantini -. Consapevoli del fatto che nell’approccio ai mercati esteri non c’è più spazio per l’improvvisazione, è però necessario che gli operatori di settore facciano un salto di qualità mettendo in campo anche strumenti di market intelligence e soluzioni in grado di affiancarle in modo concreto ed efficace percorsi di internazionalizzazione. Con un obiettivo. Favorire, soprattutto nelle PMI agroalimentari, una nuova cultura d’impresa basata su una visione a medio-lungo termine per lo sviluppo sostenibile e redditizio di progetti di business”.

Da oltre trent’anni, Nomisma supporta le imprese e le associazioni della filiera agroalimentare attraverso analisi in grado di favorire la conoscenza dei mercati e delle abitudini di consumo, degli strumenti che li regolamentano e di quelli che invece ne facilitano l’approccio. Inoltre fornisce informazioni che non possono essere tralasciate nelle decisioni strategiche e, grazie al proprio team dedicato e a un network di esperti professionisti (in ambito fiscale, legale, commerciale, marketing), offre qualificati servizi di consulenza per il supporto operativo alle imprese orientate all’internazionalizzazione del proprio business.

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Immagine in evidenza di: Oxana Denezhkina/Shutterstock

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