Un mondo che cambia: lo scenario internazionale al tempo della guerra

Market Intelligence

Le analisi di scenario di Nomisma si arricchiscono con l’integrazione degli approfondimenti di FB & Associati, la prima società di consulenza specializzata in public affairs, advocacy e lobbying con la quale Nomisma ha attivato una joint venture strategica finalizzata allo sviluppo di nuove soluzioni integrate con la propria profonda conoscenza dei settori e delle dinamiche economico-politiche.

Con la guerra di aggressione russa all’Ucraina e poi la crisi in Medio-Oriente sono state inferte nuove e profonde ferite all’ordine internazionale liberale. Si è accentuata la tendenza verso un ordine multipolare più instabile, soggetto ad alleanze variabili e con più «guerre calde». Nel processo di ridefinizione dei rapporti di forza globali, contrassegnato dal progressivo slittamento degli equilibri di potere da Occidente verso Oriente, viene a compiersi uno scarto importante: si è infatti passati dalla guerra economica alla guerra guerreggiata.

Vengono quindi sfidate, ancora una volta, le gerarchie di potere sancite, le norme che ne regolano i meccanismi e i principi cui sono ispirate. Questa transizione nelle relazioni internazionali, contraddittoria e intermittente, segnala i termini di un più ampio problema: la contestazione dell’ordine incentrato sul ruolo egemonico degli Stati Uniti e sul predominio del dollaro, da parte di una maggioranza della popolazione mondiale. Cauta e circospetta di fronte alla guerra in Ucraina risulta la posizione diplomatica non soltanto della Cina ma della stessa India e dei paesi dell’Africa. In diverso ordine e grado questi ed altri paesi rappresentano la richiesta di apportare una profonda revisione alla struttura delle relazioni internazionali.

La militarizzazione delle relazioni internazionali

Se nel 1970 l’Europa pesava il 40% del Pil mondiale, il Nord America il 36% e l’Asia il 15%, il quadro odierno vede invece il Nord America attestarsi al 29%, l’Europa al 25% e l’Asia al 40%. L’Occidente, in altre parole, costituisce sempre meno il perno del sistema internazionale. In conseguenza la governance globale, approntata alla fine della Seconda guerra mondiale, appare al meglio obsoleta, al peggio inadeguata. La crisi economica del 2008 e quella da Covid-19, in cui siamo ancora immersi, hanno accentuato le tendenze disgregatrici già in atto alimentando tensioni e dispute che rischiano di avere nella guerra in Ucraina e nella crisi in Medio-Oriente uno sbocco solamente momentaneo. In tale contesto prende il sopravvento il «dilemma della sicurezza»: l’escalation di minacce e avvertimenti reciproci, il continuato tentativo di suscitare movimenti d’opinione favorevoli alla guerra e, più di ogni altra cosa, la cosiddetta corsa al riarmo producono, in ultima istanza, la militarizzazione delle relazioni internazionali. Questi dissennati automatismi e il pregresso indebolimento dei meccanismi formali con cui storicamente è stata istituzionalizzata la deterrenza nucleare schiudono pertanto spaventevoli scenari che si ritenevano invece relegati al secolo scorso.

La ritirata della globalizzazione

A dispetto dei propositi multilaterali dell’amministrazione Biden la guerra commerciale degli Stati Uniti contro la Cina è ancora in corso. Al principio di queste tensioni si è parlato di decoupling. Sembrava, infatti, venir meno quell’integrazione di beni, capitali e tecnologie, che aveva caratterizzato il rapporto tra le due potenze. La crisi sanitaria, poi, aveva determinato una rivalutazione delle problematiche connesse alla dipendenza da beni prodotti all’estero. Nuovamente veniva posta così la necessità di allineare gli interessi economici a quelli di sicurezza. Già prima della guerra in Ucraina, anche in ragione di un diffuso malcontento di ampi strati della popolazione mondiale, la globalizzazione appariva dunque in ritirata. Alla tendenza in oggetto – di cui è difficile stabilire termini e dimensioni esatti, come di qualsivoglia fenomeno coevo – oggi come ieri si oppongono due limiti. Da una parte i costi: il reshoring (o friendshoring), il passaggio a nuovi fornitori, così come la ricostruzione di reti logistiche, almeno nel breve periodo, comportano un significativo aumento dei costi per le aziende; dall’altra la competitività: si rischia cioè di accentuare il ritardo, quantomeno in ambito tecnologico, dell’Occidente. Questa refrattarietà della globalizzazione a conformarsi agli imperativi politici di fase sembra tuttavia svanire con la guerra in Ucraina. Forte è la spinta strategica all’autonomia e a subordinare, quindi, le ragioni dell’economia alla competizione politico-internazionale, come testimonia del resto il decoupling dell’Occidente con la Russia.

Il ritorno al just-in-case

Nel rendere incerte le relazioni commerciali, queste tensioni geopolitiche frenano i processi di integrazione internazionale. Viene rimodellato così quel fenomeno economico improntato ad una nuova visione del vantaggio competitivo – la globalizzazione, con cui nel tempo si erano stabilite catene di fornitura e creato valore. La ricerca di sicurezza nelle filiere, a discapito della specializzazione produttiva e quindi dell’efficienza e di minori costi, determina infatti la loro contrazione. La filiera just-in-time, basata sulla riduzione di costi, margini e tempi, potrebbe cedere il passo a quella just-in-case con cui, a costi e tempi superiori, si garantisce una produzione costante e regolare attraverso il deposito di uno stock in magazzino e una rete di distribuzione territorialmente più vicina. Per ridurre la dipendenza da fonti esterne e sottrarsi, il più possibile, a ricatti economici reciproci, le relazioni commerciali tendono quindi a riconfigurarsi su base geopolitica. Si profila così una frammentazione finanziaria, di cui beneficeranno i Paesi del Golfo e l’India, e una parziale riorganizzazione del sistema globale per fazioni economico-politiche in concorrenza tra loro, in cui le relazioni interne si intensificano di più rispetto a quelle esterne.

Il modello USMCA

Esemplificativa di questa nuova filosofia è lo USMCA: l’accordo di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti, entrato in vigore il 1° luglio 2020 in sostituzione del NAFTA, con cui vengono fissati gli standard e le concessioni, con un grado di reciprocità che varia a seconda dei settori, per rafforzare l’integrazione economica e commerciale dell’area. Se con il NAFTA era stato liberalizzato il commercio nell’automotive, agricoltura e tessile, eliminando contestualmente la prevalenza delle tariffe sui prodotti scambiati tra i Paesi firmatari, con lo USMCA si apportano alcune modifiche all’impianto preesistente, ampliando il raggio di applicazione al commercio digitale, al trattamento dei dati personali, alla protezione dei diritti di proprietà intellettuale e a quella ambientale, alla sostenibilità e al lattiero-caseario. Cifra dell’accordo, ai fini delle questioni in oggetto, è la modifica della disciplina vigente in materia di produzione nazionale minima nell’industria automobilistica regionale. Per beneficiare dell’abbattimento delle tariffe nell’esportazione da un paese all’altro la percentuale delle componenti da produrre all’interno dell’area è passata dal 62,5% al 75%: si riducono così le presenze e condizionalità cinesi nelle catene di approvvigionamento transnazionali in favore delle produzioni regionali.

Una ri-globalizzazione selettiva

Energia, difesa, informatica, comunicazioni, sono alcuni dei settori strategici interessati già da una forma di ri-globalizzazione selettiva. Il fenomeno, la cui estensione non è prevedibile, colpisce di riflesso anche gli apparati scientifici, finanziari e istituzionali, che sono parte di ogni ecosistema dell’innovazione. In questo scenario instabile, dominato da Stati Uniti e Cina, intenti a scaricare il più possibile all’esterno i costi di questo aggiustamento, potrebbero delinearsi altre coalizioni integrate di paesi affini secondo paradigmi più sfaccettati dei consueti centro-periferia, dominanza-dipendenza. In nome della sicurezza potranno introdursi inoltre nuove misure protezionistiche di restrizione agli scambi e all’accesso ai mercati, col conseguente effetto di ridimensionarne il grado di apertura e di ridurre il commercio globale. Nel volgere di pochi mesi l’industria viene, quindi, investita dagli sconvolgimenti apportati dalla pandemia, prima, e dalla guerra, poi. Alla modificazione dei comportamenti sociali degli individui (consumo, lavoro e mobilità) si accompagnano, infatti, le conseguenze sulle attività produttive dei rincari di energia, commodity, logistica e semilavorati. I benefici iniziali per farmaceutica, e-commerce e alimentare, non sono compensati dalle perdite in siderurgia, agroindustria e automotive.

*Di Fulvio Lorefice, Senior Analyst di FB & Associati

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